Napoli: la banca dell’acqua e l’acquafrescaio

Cultura

A Napoli esistono banche molto particolari: le Banche dell’Acqua. Si tratta dei caratteristici chioschetti che partire dalla fine del Settecento iniziarono a crescere in tutti gli angoli della città per vendere quello che all’epoca era un bene assai prezioso: l’acqua fresca. Oggi le banche dell’acqua sono sempre meno. Quelle rimaste, resistendo al tempo, si sono evolute e hanno cambiato funzione.


A Napoli esistono banche molto particolari: le Banche dell’Acqua. Si tratta dei caratteristici chioschetti che partire dalla fine del Settecento iniziarono a crescere in tutti gli angoli della città per vendere quello che all’epoca era un bene assai prezioso: l’acqua fresca. Oggi le banche dell’acqua sono sempre meno. Quelle rimaste, resistendo al tempo, si sono evolute e hanno cambiato funzione.




Il palazzo del Banco di Napoli fa ombra ai passanti di Via Toledo, una delle arterie partenopee più frequentate dai turisti che ne ammirano l’imponenza. I napoletani che passano da quelle parti, però, sono attratti da un’altra banca, assai diversa: la Banca dell’Acqua di Piazza Trieste e Trento, a due passi da via Toledo.

Un occhio poco attento potrebbe scambiarla per un semplice chioschetto. Ma quella struttura è qualcosa di assai diverso. Si tratta della più antica Banca dell’Acqua ancora in attività in città. Per capire la funzione che la strana banca ha assunto per i napoletani bisogna andare indietro di molti secoli.

“All’inizio del 1700 nasce il mestiere dell’acquafrescaio, che porterà qualche decennio più tardi alla formazione delle banche dell’acqua”, spiega Marina Brancato, antropologa all’Università L’Orientale di Napoli.

Nel Settecento la vita a Napoli era assai diversa da quella di oggi e l’acqua fresca era un lusso per pochi. Fino a quando arrivarono gli acquafrescai, venditori ambulanti di acqua che giravano per la città, soprattutto nelle zone mercatali, per vendere un bel bicchiere d’acqua fresca. Un servizio che iniziò presto ad essere assai apprezzato in una città in cui già in primavera si raggiungono temperature assai alte.

“Gli acquafrescai – spiega la professoressa Brancato – tenevano l’acqua all’interno di anfore di creta chiamate mummare che con una particolare chiusura stagna riuscivano a mantenere l’acqua fresca per una decina d’ore nonostante le temperature torride”.


A Napoli esistono banche molto particolari: le Banche dell’Acqua. Si tratta dei caratteristici chioschetti che partire dalla fine del Settecento iniziarono a crescere in tutti gli angoli della città per vendere quello che all’epoca era un bene assai prezioso: l’acqua fresca. Oggi le banche dell’acqua sono sempre meno. Quelle rimaste, resistendo al tempo, si sono evolute e hanno cambiato funzione.


Il palazzo del Banco di Napoli fa ombra ai passanti di Via Toledo, una delle arterie partenopee più frequentate dai turisti che ne ammirano l’imponenza. I napoletani che passano da quelle parti, però, sono attratti da un’altra banca, assai diversa: la Banca dell’Acqua di Piazza Trieste e Trento, a due passi da via Toledo.



Un occhio poco attento potrebbe scambiarla per un semplice chioschetto. Ma quella struttura è qualcosa di assai diverso. Si tratta della più antica Banca dell’Acqua ancora in attività in città. Per capire la funzione che la strana banca ha assunto per i napoletani bisogna andare indietro di molti secoli.


“All’inizio del 1700 nasce il mestiere dell’acquafrescaio, che porterà qualche decennio più tardi alla formazione delle banche dell’acqua”, spiega Marina Brancato, antropologa all’Università L’Orientale di Napoli.

Nel Settecento la vita a Napoli era assai diversa da quella di oggi e l’acqua fresca era un lusso per pochi. Fino a quando arrivarono gli acquafrescai, venditori ambulanti di acqua che giravano per la città, soprattutto nelle zone mercatali, per vendere un bel bicchiere d’acqua fresca. Un servizio che iniziò presto ad essere assai apprezzato in una città in cui già in primavera si raggiungono temperature assai alte.



“Gli acquafrescai – spiega la professoressa Brancato – tenevano l’acqua all’interno di anfore di creta chiamate mummare che con una particolare chiusura stagna riuscivano a mantenere l’acqua fresca per una decina d’ore nonostante le temperature torride”.


Per circa un secolo il mestiere dell’acquafrescaio o semplicemente acquaiuolo rimase lo stesso. Ma Napoli in quegli anni era una città assai tumultuosa che cambiava volto (e governante) in maniera assai repentina. La faccia di Partenope cambiava volto e così anche gli acquafrescai dovettero adeguarsi.

“Il mutamento culturale legato al mestiere dell’acquafrescaio – spiega Brancato – ha di fatto seguito il mutamento nella grammatica spaziale della città di Napoli. Dunque a un certo punto i venditori di acqua iniziarono a diventare stanziali costruendo delle postazioni in cui vendere l’acqua”.

Nascono così le famigerate Banche dell’acqua
“Ce n’era una in ogni rione – continua Brancato – e ognuna di esse rappresentava un punto di riferimento per gli abitanti di questo o quel quartiere”. Con la comodità del posto fisso il prodotto offerto dagli acquafrescai mutò. Un’evoluzione che portò alla creazione di diversi prodotti: c’era l’acqua annevata, rinfrescata con blocchi di ghiaccio, l’acqua addirosa, perché aromatizzata al vino e l’acqua ferrata, di origine vulcanica, dal sapore ferruginoso.

La storia dell’evoluzione dell’acquafrescaio la conosce bene Antonio Guerra (che però preferisce farsi chiamare Popo’) che insieme alla sorella Carolina gestisce la Banca dell’Acqua di Piazza Trieste e Trento attiva dal 1836.

“All’epoca – spiega Popo’ – seppure esistevano tanti tipi di acqua, quella che si vendeva era pur sempre acqua. La prendevano dalla sorgente del Monte Echia che all’epoca era ancora attiva. Poi un giorno a chissà chi venne l’idea di aggiungere a quell’acqua già buona di suo il succo di limone e un po’ di bicarbonato di sodio. Creando quella che oggi si chiama la gassosa a cosce aperte”.



La bevanda che è un toccasana nelle calde giornate napoletane soprattutto dopo una bella abbuffata prende il nome dalla posizione che bisogna assumere per poterla buttar giù senza sporcarsi.

Lo spiega bene Popo’: “Quando inserisco il bicarbonato nell’acqua e limone, tutto il liquido comincia ad eruttare e tu per non sporcarti devi portarti avanti con il busto e… aprire le cosce”.

Con l’invenzione della gassosa a cosce aperte, la sosta all’acquafrescaio passò dall’essere un semplice momento della giornata dedicata a rinfrescarsi a un vero e proprio momento di ritualità.

“Il mestiere dell’acquafrescaio – spiega l’antropologa Marina Brancato – è uno di quelli che meglio ha saputo resistere ai cambiamenti perché meglio si è adattato ad essi”.

Lungi dall’essere baluardo di una tradizionalità rigida, l’acquafrescaio ha accompagnato i napoletani nei mutamenti che stavano avvenendo in città, nel regno e nel mondo.



Quella della gassosa a cosce aperte è solo uno dei tanti riti legati al mestiere dell’acquafrescaio. Il più famoso è probabilmente quello legato al dialogo, sempre uguale, che ogni giorno i passanti tenevano con l’acquafrescaio del quartiere. “Acquaiò, l’acqua è fresca?” chiedeva il passante. “Comm ‘a neve”, rispondeva l’acquaiolo.

Una ritualità tipica delle classi popolari napoletani di tutti i tempi. “Ma in realtà – risponde Marina Brancato – è il mestiere dell’acquafrescaio ad essere strettamente collegato alla classe popolare. Oggi si stenta a crederlo ma la possibilità di acquistare una Banca dell’acqua o riceverla in eredità e dunque diventare l’acquafrescaio di quartiere era una grande conquista. Per questo forse ancora oggi sia l’acquafrescaio che i suoi clienti sono spesso legati alle classi sociali più popolari, più autentiche e più interessate alla conservazione delle tradizioni”.



Sebbene sia ancora un luogo per napoletani, qualche turista prova ad approcciarsi alle banche dell’acqua. Una coppia di turisti si avvicina al chiosco di Popo’ e, titubanti, chiedono di provare la famigerata gassosa a cosce aperte.

Popo’, che sa bene come dosare la quantità di bicarbonato per dare il giusto “getto” alla bevanda, decide di offrire ai due un’esperienza il più possibile autentica. In altre parole, decide di calcare la mano.

La bevanda inizia ad eruttare prima ancora che l’impavido turista riesca ad avvicinare il bicchiere alla bocca e ad aprire le gambe per non sporcarsi.

“Arape buone sti cosce”, urla un vecchietto divertito dalla panchina di fronte. Il turista segue il consiglio gridato dall’anziano e butta giù l’intruglio digestivo. È andata bene. I due turisti sembra si siano divertiti. Inconsapevoli di essere entrati per qualche secondo fin dentro l’anima della città.

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